Correva l’anno 2011. Sgretolins era nella mia pancia. La prima a trovare la strada, la prima a decidere di rimanerci, lì dentro, di darmi fiducia, di crescere. Avevo un lavoro impegnativo a quel tempo, ma che svolgevo in un ambiente abbastanza sereno. Sgretolins, che ancora si sarebbe dovuta chiamare Sophie, in gravidanza mi accompagnò a Tunisi e a Skopje per lavoro, ma anche in Francia e in Italia per piacere. Ero felice di aspettare quella bambina, era il mio sogno di sempre. Volevo diventare madre, quella per me è sempre stata una certezza. E quindi ero la gioia fatta a persona. Il giorno della due date, il 13 Settembre, stavo benissimo e niente mi stava avvisando di quel che sarebbe accaduto di lì a poco. Sono andata a pranzo in un locale di Bruxelles che si chiama Banco, ho passato un pomeriggio tranquillo, la ginecologa mi ha fatto un tracciato e mi ha congedata dicendomi di andare a letto serena, il collo dell’utero era del tutto chiuso e probabilmente ci sarebbe voluto ancora qualche giorno. Le ore successive le ho passate rassicurando mia mamma – arrivata dall’Italia – che non aveva preso un volo a vuoto per Bruxelles, ma che sarebbe tornata a Milano dopo aver visto la nipote. La sera dopo cena comincio a sentirmi strana. Ora, dopo tre parti, so che si trattava solo delle primissime avvisaglie, inefficaci ma mild contractions. Ora so che davvero ci sarebbero potuti volere dei giorni. Ma allora ero troppo eccitata, impreparata, incredula. Così non ho dormito tutta la notte, ascoltando e vivendomi quei leggeri fastidi ogni dieci-venti minuti come l’anteprima dell’imminente nascita. Alle 5 del mattino ho svegliato il Micio e abbiamo detto a mia mamma che saremmo andati in ospedale.
E’ stata, credo, la giornata più lunga della mia vita. Quando sono arrivata in ospedale ero dilatata di 3 cm. Le ostetriche, gentilissime, ci hanno fatto accomodare in una sala travaglio. E lì abbiamo vissuto lo scorrere delle ore, un po’ stavo seduta sulla palla, un po’ ad ascoltare musica, un po’ a fare video, un po’ a guardare il Micio al telefono con parenti e amici. I dolori erano gestibili, ma io accusavo sempre di più la stanchezza della notte insonne. Le gambe tremavano, a pomeriggio inoltrato non riuscivo più a stare in piedi. Dopo tantissime ore di travaglio ero a 5 cm. Ricordo lo sconforto più totale. Ricordo gli abbracci dell’ostetrica di turno. Ricordo quanto cercasse di infondermi coraggio, di farmi cambiare posizione. Ricordo i suoi massaggi e la musica a basso volume che il Micio mi metteva per rilassarmi. Ma io avevo sempre più male, e mi sembrava che tanto la situazione non evolvesse mai, mai abbastanza. Volevo solo dormire. Così, intorno alle 17h chiesi l’epidurale, più che altro per sfinimento e per potermi rilassare un po’, e un quarto d’ora dopo ronfavo della grossa. Intorno alle 17.45 sono stata svegliata dalla mia ginecologa, appena arrivata in ospedale, che ancora in borghese si avvicina e mi dice ” Madame, è il primo parto, deve avere pazienza, mi cambio e diamo una controllatina”. Se non fosse che alza la mia camicia da notte, mi guarda in un modo che non dimenticherò mai, e mi dice: ” Madame, ma lei ha rotto le acque, e la testa è quasi fuori! Vuole sentire i capelli? Mi cambio e torno”. Ora, io non so che dose da cavallo mi abbiano fatto, ma in venti minuti sono passata da 5 a 10 cm senza dolore. Quando torna la ginecologa mi fanno tirare su un po’ la testa, le mie gambe tremano moltissimo, non so se per l’emozione o per la stanchezza o per entrambe le cose, fatto sta che Sgretolins esce in due spinte alle 18h04, una fase espulsiva durata una sola contrazione. Parto più facile non si è mai visto. Me l’hanno messa immediatamente sul petto, il Micio emozionato ha tagliato il cordone ombelicale, e dopo aver visitato velocemente la bimba (senza mai portarla via da me), ci hanno lasciato per un’ora soli nella stanza. Luci soffuse, silenzio. Sgretolins strisciando su di me ha fatto la sua prima ‘poppata’ senza bisogno di aiuti. Intorno alle 19h30 l’hanno pesata e misurata. Non l’hanno lavata, e lei ha continuato ad annusarsi le manine che sapevano della sua prima casa fino al giorno dopo. Ci hanno poi portati nella camera singola che avevamo prenotato, grazie all’assicurazione del Micio. E lì per la prima volta ci siamo sentiti una famiglia.
Alla mia seconda due date, ancora una volta il 13 Settembre (ma del 2013), Dragon non è arrivato. Ha deciso di tuffarsi fuori prima, nel vero senso della parola. Dopo la prima esperienza mi ero detta che avrei davvero fatto di tutto perché il secondo parto fosse più rapido del primo, così decisi di farmi seguire da un’ostetrica e di prepararmi alla gestione del dolore con sessioni di yoga, di respirazione, di meditazione. Mi ero resa conto che forse con l’aiuto di un’ostetrica tutta per me durante il primo parto avrei saputo gestire meglio le posizioni in travaglio, e -forse- avrei saputo assecondare i movimenti in modo da accelerare la discesa del bimbo. Ho avuto la fortuna di incontrare una sage femme deliziosa, consigliatami dalla mia amica Yael, anche lei mamma di tre. Purtroppo non lavorava all’Hopital Saint Pierre, quindi decisi di cambiare ospedale, e di partorire Dragon al Ste-Elisabeth. Quello di Dragon fu il parto più bello dei tre, senza alcun dubbio. Sono stata davvero fortunata a poterlo vivere.
Andò più o meno così: la mattina del 7 Settembre, quando avevo tutt’altri piani (avevo lavorato fino al 2 incluso e mia mamma arrivava proprio il 7 dall’Italia), mi sveglio infastidita da una contrazione. Durante le gravidanze non ho mai sofferto di contrazioni, quindi mi metto subito sull’attenti e ascolto. Decido di fare un bagno caldo, come suggeritomi dall’ostetrica durante i suoi incontri. Nel frattempo si sveglia Sgretolins, che avrebbe dopo pochi giorni festeggiato i due anni. Stiamo un po’ insieme in bagno, le dico che tra un po’ chiamiamo la nostra amica portoghese Barbara che starà un po’ con lei, mentre io e il papà andremo in ospedale a far nascere il fratellino. C’è molta tranquillità nell’aria. Le contrazioni non sono forti, il dolore è gestibile con dei respiri profondi. Esco dalla vasca, vesto Sgretis, verso le 9 del mattino andiamo al Ste-Elisabeth. Mi visitano: 5 cm. Non male, se penso ai dolori e alla stanchezza che ho patito due anni prima per arrivare ai 5 cm mi sembra di poter fare tutto, mi sento piena di energia. Sono già a metà, mi dico. Posso farcela. L’ostetrica (questa volta non quella di turno, ma la mia) ci fa vedere la sala travaglio, ma ci dice di muoverci a nostro agio per l’ospedale. Di fare tranquillamente dei giri, di fare le scale, di andare al ristorante. Ci dice che il trucco è cercare di vivere il più normalmente possibile fino a quando il dolore è sopportabile fermandomi, respirando, ringraziando. Colgo la palla al balzo: il Micio mi porta a mangiare una quiche lorraine al piano terra, la gente mi guarda. Ogni tanto mi appoggio a una colonna e gestisco la contrazione in arrivo. Tra una e l’altra mangio, cammino, rido, sorrido. Chiamo per la prima volta mia mamma che è in aeroporto e le dico “just in time, io sono in ospedale a 5cm”. Così, giusto per farla volare tranquilla… Dopo qualche ora sono solo a 7 cm. Faccio meno la splendida ora. Non sono più tanto contenta. Sono le 17h30, sono in travaglio comunque da almeno una decina di ore. Le contrazioni ora si sono fatte forti. L’ostetrica meravigliosa intercetta lo sconforto nei miei occhi, capisce che non posso resistere a lungo e mi propone di fare un bagno caldo. Si, c’è una vasca da bagno nella mia camera. Non una vasca per il parto in acqua, una vasca tout-court. Mi dice anche che se voglio accelerare un po’ perché sono stanca potrebbe mettermi qualche goccia di olio di salvia sul collo dell’utero. Non so che diavoleria sia, ma in quel momento accetto e penso che dopo il bagno caldo chiederò probabilmente l’epidurale.
Non appena metto i piedi nell’acqua sento il rilassamento. Mi sdraio e dopo pochi minuti le sensazioni si intensificano. Dico al Micio che il bimbo spinge. Che sta uscendo. Ma l’ostetrica mi ha appena visitata ed ero a 7cm… Mi dice di stare tranquilla, che è la pressione normale sul bacino, che è il cambio di posizione. Ad ogni contrazione faccio forza istintivamente sulle braccia verso la testa della vasca, per obbligarmi a non spingere, per assecondare la forza espulsiva. L’ostetrica viene chiamata per un’urgenza. Ormai le contrazioni sono ravvicinate. Il dolore è sempre più forte. Lei e il Micio mi diranno dopo che ero calmissima, “que j’ai bien maitrisé” , che controllavo perfettamente il dolore, ma io ricordo nitidamente di avere considerato di poter morire. Mi sono detta che non sapevo se fosse normale quello che stessi vivendo, e per un attimo ho considerato la possibilità di rimetterci le penne, in quella vasca.
Sono passati solo venti minuti da quando sono in acqua, mi dirà poi il Micio. Quando l’ostetrica torna controlla la dilatazione e con una voce serafica mi dice: “Ci siamo Elizabetà, sei a 10cm, puoi uscire per prepararti a spingere”. Non credo ai miei occhi, ma soprattutto non credo alle mie orecchie. Uscire? In questo stato? Ma io sto morendo, o sto partorendo, non so, in ogni caso non sono in grado di tirare fuori questa balena dall’acqua, asciugarmi e mettermi su un lettino. E’ un dolore intermittente che non mi lascia respirare ormai. Le bofonchio senza fiato “ok, une dernière contraction et je sors”. Un’ultima contrazione e esco. Non ci credo minimamente, ma in quel momento sono sopraffatta dagli eventi, sono immobilizzata dal dolore. Sopravvivere mi sembra già il mio obiettivo più grande. Lei mi dice di fare come mi sento, di stare tranquilla, che va a ricontrollare l’altra partoriente che ha un travaglio complicato e torna subito. Ma la mia ultima contrazione arriva subito. E’ forte, il bimbo spinge. Spinge così tanto che nell’acqua sento chiaramente il rumore di uno scoppio: mi si sono rotte le acque, e non solo, Dragon ha buttato fuori la testa. Così, da solo. Ma mica senza preavviso, io lo dicevo da quando sono entrata nell’acqua. Il Micio spalanca gli occhi, sembra che abbia perso un braccialetto in acqua, si avvicina e mi riguarda. Che ridere, cosa pagherei per vederlo da fuori oggi. Lui per tutto il tempo è stato accovacciato di fianco alla vasca, a darmi forza, ad accarezzarmi, a fare le sue battute sul dolore che provava lui alle ginocchia, sul fatto che non ci fosse neanche un cuscino. E a un certo punto vede questa testa spuntare sott’acqua, senza corpo, ed è solo con me in quella stanza. Siamo soli, proprio ora. Dove sono tutti? Tira il cordoncino rosso d’emergenza. La sonnette d’alarme. L’ostetrica rientra in quel momento e ci dice “Super Elizabetà, super! Ma no che non affoga papà, il va bientot sortir”. Credo sia la prima volta che qualcuno chiama il Micio papà. Non lo dimentico. Ci dice di restare calmi, di aspettare la prossima contrazione, che non ci sono problemi. Che il bimbo può restare con la testa nell’acqua. Io sono calma, il suo tono è davvero rassicurante. E poi per me è facile, io la testa mozzata di Dragon non la vedo, ho il pancione che copre tutto.
In effetti alla contrazione successiva il piciulino sguscia fuori senza il minimo bisogno di aiuto, e pochi secondi dopo è sul mio petto. Non piange. Lei gli accarezza la schiena. La testa. “Perché non piange?” le chiedo. Non sono davvero preoccupata, c’è silenzio e pace intorno. Mi dico che nei suoi occhi leggerei il bisogno di intervento, il sorgere di un problema, se mai ci fosse. La luce è soffusa e la calma è totale. Dragon non piange perché la sua nascita è stata quanto di più naturale ci si possa immaginare. E’ passato dall’acqua all’acqua. Dal caldo al tepore. Dal buio alla penombra. Ha riconosciuto subito il battito del mio cuore. E’ rimasto legato al cordone per diversi minuti. Ha pianto solo quando mi sono messa in piedi per uscire dalla vasca, indebolita con lui sul petto e la stanchezza nelle gambe. Ma neanche in quell’occasione l’ostetrica l’ha allontanato da me. Il Micio mi ha sorretto le braccia, e andando verso il letto mi sono vista allo specchio. Non mi sono riconosciuta. Ero la versione più vera di me, la più selvaggia, senza difese, stremata ma così realizzata. Ero cosciente ed incosciente allo stesso tempo. Con questo batuffolo nudo sul mio corpo nudo. Come se l’avessi salvato correndo sotto la pioggia. Una volta sul lettino il Micio ha tagliato il cordone, e di nuovo, come due anni prima, anche se in un ospedale diverso, ci hanno lasciati soli per almeno un’oretta. Non c’è niente di più bello. Il tempo è sospeso. Il miracolo è avvenuto.
18 Agosto 2018. La mia terza due date. Nessuna contrazione. Lindibussi sta bene dov’è. Forse perché per tutta la gravidanza, vissuta tra l’Italia e il Belgio, mi dicono che sicuramente la bimba arriverà prima del previsto, perché il secondo è nato in anticipo, perché è il terzo parto, perché ci sono 40 gradi a Milano, perché ho un trasloco internazionale da affrontare, insomma ne sono tutti convinti, medici e ostetriche brussellesi e milanesi. E lei invece non lo è per niente. L’ospedale Mangiagalli di Milano fissa l’induzione il giorno 25 Agosto. Qui non si aspettano dieci giorni bensì una settimana, mi spiegano che oltre tale termine aumenta il rischio di morte in utero. Più per scaramanzia che altro accetto l’induzione anche se spero fino all’ultimo che Lindis si decida a darmi qualche avvisaglia prima, ma purtroppo non avverrà. Data la mia diffidenza verso la pratica dell’induzione, la ginecologa mi propone lo scollamento (ovvero di scollare le membrane amniocoriali dalla superficie interna del collo dell’utero) la sera prima, in modo da tentare un’inizio del travaglio più naturale e senza farmaci. Non si sa mai che la notte tra il 24 e il 25 qualcosa si smuova. Mi rifiuto di fare lo scollamento. Forse col senno di poi sarebbe stato meglio, ma proprio ho un’irresistibile resistenza, e il gioco di parole è dovuto, verso qualunque interferenza nei confronti dei miei tempi naturali.
Così, con le pive nel sacco, mi reco col Micio il 25 mattina all’appuntamento per l’induzione. Ci portiamo libri, computer, riserve di cibo per due giorni. Siamo pronti a restare in sala travaglio a lungo. Mi fanno accomodare in una saletta con due lettini. Di fianco a me c’è una ragazza che è alla sua terza dose di gel: è in ospedale da 18 ore e il travaglio non parte. Non mi mette di buon umore. Dopo poco arriva il ginecologo di turno. Mi spiega come funziona il gel, mi dice che di solito la prima dose non fa effetto e quindi di stare tranquilla che ne avremo almeno per sei ore, quando poi mi farà la seconda dose e, in genere, le contrazioni cominciano nelle ore successive. Io ormai sono rassegnata ma non preoccupata, certa di averne per almeno dodici ore mi sdraio per la visita di controllo. Il ginecologo in questione durante la visita mi fa malissimo. Sussulto. Tanto che gli chiedo se ha proceduto allo scollamento delle membrane. Lui nega. Io mi rialzo indolenzita. Vede che non gli credo. Mi dice “Glielo avrei detto”. Penso che delle due l’una: o mi mente o non sa fare il suo mestiere. Ma non dico niente. Di visite ormai posso dire di averne effettuate diverse, in condizioni ben peggiori di quella, in fase di travaglio attivo, di contrazioni lancinanti, di sensibilità particolare. Ma io un dolore come quello per verificare la dilatazione del collo dell’utero non l’ho mai provato, neanche da lontano. A dire il vero non ho mai provato il minimo dolore in quelle visite, perché così deve essere. Questa cosa mi indispone davvero molto. Ho voglia di andarmene, ma so che devo far prevalere la razionalità. Quando torna mezz’ora dopo con la dose di gel mi sento un cane in gabbia, mi sembra che mi stia per avvelenare. Non mi sento fiduciosa, spero, anzi prego (davvero prego) di non aver bisogno dell’intervento medico, perché per quanto mi riguarda mi hanno già messo abbastanza le mani addosso. Mi chiede se voglio che mi rompa anche il sacco amniotico. Respiro. Vorrei tanto, davvero tanto, avere al mio fianco un’ostetrica o un medico che conosco, che saprebbe già la risposta a quella domanda, anzi, non me la farebbe affatto. Gli dico “no grazie aspettiamo”. Non vedo l’ora che sia tutto finito, comincio a non stare bene. Non ho quell’eccitazione felice delle altre volte. Sento che oltre al Micio intorno a me non c’è nessuno pronto a viversi le prossime ore nell’attesa pacifica di questo meraviglioso evento naturale, mi sento sotto pressione, come se fossi in mezzo al traffico o se stessi ostacolando qualcuno in qualcosa. L’infermiera lega il monitoraggio allo schermo, sono di fatto costretta a letto. Sdraiata. Qua non è possibile averne uno portatile come a Bruxelles per il parto di Dragon, non posso alzarmi, non posso camminare, non posso uscire dalla stanza.
Il ginecologo cerca un dialogo, è anche cortese, mi chiede come si vive a Bruxelles. Non so come dirgli che non ho voglia di chiacchierare, che avrei voglia di vivere queste ore da sola col Micio, che non me ne frega niente di parlare, che vorrei respirare, che vorrei parlare con Lindis, che vorrei essere in una stanza completamente diversa e non lì, che questa cosa sulla pancia mi schiaccia, vorrei chiedere quando me lo tolgono, ma il monitoraggio deve essere continuo? Dopo circa mezz’ora ho lo stimolo fortissimo di andare a fare pipì. E’ finto, in realtà sono contrazioni ma non le riconosco perché non sono naturali. Quel che conta è che il Micio chiama l’ostetrica per togliermi il monitoraggio e permettermi di andare in bagno ma lei mi dice (senza neanche avvicinarsi al letto) che col gel devo stare un’ora sdraiata, non posso alzarmi. Eeeeehhh???? E non me lo potevate dire prima? Magari sarei andata a far pipì. Ok, non è un vero stimolo, ma io non mi sento bene, ho bisogno di alzarmi, non riesco a vivere questo dolore sdraiata supina immobile. Quella è la mezz’ora peggiore. No, a pensarci bene no. In ogni caso non passa mai. Appena posso mi libero di tutti quei fili, mi piego a 90 gradi in avanti e cerco di assecondare questi dolori ormai intensissimi, che non mi danno tregua. Ma le contrazioni non sono graduali? E’ la terza volta e ancora non ho capito niente? Alle 11h30 comincio ad avere anche fortissimi dolori alla schiena. Comincio a sentire pressione. Eppure questa volta pensavo di essere preparata. Avevo addirittura scaricato una app sul telefono per misurare la durata e la frequenza delle contrazioni, ma questi dolori sono talmente strani e continui che non riesco a farlo, non capisco quando cominciano e quando finiscono.
Alle 12.04 avviso via sms timidamente l’ostetrica che mi hanno consigliato, e che avrei voluto mi accompagnasse durante il parto: “Scusa il disturbo ma qui credo proprio che le contrazioni siano cominciate, mi sembra ogni 2 minuti e durano 40 secondi, ma è difficile calcolarle”. Che tenerezza questo messaggio a rileggerlo a distanza di tempo…quanto sono insicura, avevo paura di disturbarla per niente. Lei mi rassicura dicendomi di stare tranquilla che viene subito in ospedale. Non farà in tempo ad aiutarmi, Linda un’ora dopo sarà nata.
Il ginecologo mi chiede come sto, gli dico “non bene” e decide di rivisitarmi. Sto male, sono tesa, il Micio va a chiamare l’anestesista, forse è presto, forse non è il protocollo, ma ce ne freghiamo, questo non è un dolore da travaglio normale, non posso sopportarlo a lungo. Il medico mi dice “3 cm, vada in sala parto!” con tono deciso. Non capisco, sono solo a 3 cm? E perché allora devo correre in sala parto? Forse ho capito male? Sono stranita ma non ho nessuno a cui chiedere, cammino in corridoio vedendo queste altre anime (infermiere, medici…), le vedo ma non riesco neanche a chiedere aiuto, a incrociare il loro sguardo. Mi guardano camminare più o meno accartocciata lungo il muro, ma nessuno mi offre un braccio per camminare fino alla sala parto. Mi sento molto sola, voglio piangere. E se il Micio non mi trova più? Il tempo mi sembra dilatato. Forse tra una stanza e l’altra ci sono dieci metri, ma farli da sola in quelle condizioni è il peggiore degli incubi. Forse è stato quello il momento più brutto. No, anzi no.
Sono in balìa degli eventi, ma soprattutto quello che provo è un’incomprensione forte verso tutta questa esperienza. Perché questa freddezza? Come mai mi trattano come se fossi l’ingranaggio di una macchina, come mai questa volta non mi sento speciale, magica come solo le donne sanno essere? Mi sento di troppo, non al mio posto. L’ambiente è frenetico. Nessuno è in ascolto. Non mi sento libera. Questo è.
Per fortuna arrivata in sala parto c’è l’incantevole Dott.ssa Ambrosini. Lei sì che merita di essere nominata. Una dolcezza di donna. Aiutata da un’assistente mi fa l’epidurale, non senza difficoltà, perché io, come nel caso di Dragon, non riesco a stare ferma, e sento che la bimba spinge parecchio. Le dico “so che sono a 3 cm e non è possibile ma la bimba sta uscendo”; credo di essere abbastanza convincente perché la Dott.ssa chiama il medico e riferisce. Chiede di mandarle subito un’ostetrica. Sento l’ansia nella sua voce. Poverina, me ne rendo conto nonostante il mio stato d’animo. Fa in tempo però a farmi l’anestesia, e quindi quando mi chiedono di mettermi sdraiata sul lettino sono un po’ più in controllo della situazione. La ‘mia’ ostetrica non c’è, ma ne arriva una molto dolce e rasserenante. Io non sono ancora tornata in me, ho tante emozioni in corpo e nella testa, non è proprio come mi ero aspettata che fosse, però cerco di ascoltarla. Mi dà istruzioni, io non sento più molto lo stimolo di spingere, e vorrei prendermi qualche minuto per tornare allo stato di coscienza, per prepararmi all’evento, per aspettare qualche contrazione, per assecondare i movimenti naturali.
Il ginecologo però cerca di accelerare (alla seconda spinta, ero sul lettino da pochi minuti), facendo pressione col braccio sulla mia pancia. Lo gelo con lo sguardo e gli sposto la mano. Non credo di aver detto niente, ma potrei averlo fatto e averlo rimosso. Ricordo solo il suo sguardo e il modo in cui si è ritratto immediatamente. A quel punto, scusate il francesismo, ero proprio incazzata. Credo che l’abbia capito perché da quel momento ha fatto fare tutto all’ostetrica, si è addirittura allontanato da me. Al mio fianco c’era il Micio che invece mi dava tanta forza, mi sussurrava tutto quello che abbiamo bisogno di sentirci dire in quel momento, mi instillava dosi di dopamina e serotonina nelle orecchie, mi accarezzava le guance. Lindibussi è nata alle 13h13, ovvero un’ora dopo il mio messaggio insicuro all’ostetrica. E’ nata ancora con il sacco amniotico intatto. “Con la camicia”, come si dice. E almeno di questo sono felice, perché forse per lei è stata una bellissima nascita, e in fondo è questo che conta.
Per me non è stato proprio così, nel caso non si fosse capito: intorno a me ci saranno state 8 persone. Ho realizzato dopo che una delle ragioni era questa: il sacco era integro, il ginecologo mi fotografava “perché sa, mi è capitato pochissime volte nella mia carriera” e forse altri erano curiosi. Non ho avuto il privilegio di vedere Lindibussi “con la camicia”, neanche per un attimo, se non in foto, perché è uscita ed è rimasta nelle mani delle infermiere che hanno tagliato il cordone, l’hanno pesata, lavata, aspirata e chissà cos’altro. Solo dopo mi è stata data in braccio. Mi diranno che sono passata da 3cm a 10cm in mezz’ora.
Non conosco i protocolli ospedalieri, sicuramente di eccellenza, di certo ogni professionista che ho incontrato ha seguito delle istruzioni, ma basterebbe così poco per rendere l’esperienza migliore. Forse è stato così perché è stato un parto indotto. Non so. Ma, ripeto, basterebbe così poco…INTER ALIA…Abbassare le luci. Non fotografare durante il parto. Non permettersi di intervenire sulla donna senza il suo consenso. Indugiare sullo sguardo della partoriente, farle forza, parlarle. Non è una vacca che sta andando al macello. Non deve essere incanalata in un corridoio ma potrebbe (dovrebbe!) essere accompagnata fisicamente ed emotivamente. Permettere alla donna, nel 2018, di partorire nella posizione in cui si sente più comoda, non sdraiata su un letto.
Ecco l’ho scritto. Questo lungo post sulle differenze tra il mio parto milanese e i due brussellesi è stato per ora il più faticoso. Non faccio nomi ma voi che l’avete a gran voce richiesto spero apprezzerete 🙂