Elisabetta è un’amica. Ti colpisce per il suo sorriso, per la sua ironia, per la sua bocca grande e per l’espressività. E’ teatralmente coinvolgente, non si può evitare di volerle bene, ha uno spirito generoso e la capacità di essere presente.
Ci si vede sempre di corsa, entrambe gestiamo il nostro tempo in autonomia tra i lavori, i figli, la casa, le relazioni sociali, i nostri innamorati. “Sono schiava dell’orologio”, mi dice più volte. La nostra Milano di quartiere aiuta: nessuna delle due è bloccata in un ufficio dalla mattina alla sera, entrambe abbiamo delle micro pause di mezz’ora in cui se ci va ci vediamo e ci raccontiamo “due fatti”, come dice lei.
Pugliese lei, milanese io. Fin da piccolissime ci conosciamo in un posto molto speciale, minuscolo, in provincia di Taranto. Non ci frequentiamo mai, lei è di Bari, io sono un’intrusa. Lei ha il suo gruppetto di amiche, io sono l’unica milanese e mi confondo tra gli animatori. Ma ci vogliamo bene e ci chiamiamo “le omonime”. La trovo bellissima coi suoi capelli lunghi, gli occhi luminosi e quell’abbronzatura facile che io non avrò mai. Da adulte, ormai mamme, vengo a sapere durante una chiacchierata estiva che vive a Milano. Maddai! E finisce lì. Anni dopo, quando io e il Micio decidiamo di tornare da Bruxelles, firmiamo un contratto di affitto in un palazzo milanese senza neanche aver visitato l’appartamento, e la prima volta che ci metto piede la incontro sulle scale. Il caso ci ha unite, è il caso di dirlo. I bambini sono iscritti alla stessa scuola pubblica di quartiere, e così cominciamo ad incrociare le quotidianità.
Eli, oggi sei una “psicoterapeuta cognitivo comportamentale”. Sei diventata quello che volevi? In un certo senso sì, il mio progetto fin dalle elementari era essere “mamma e dottoressa”. Vengo da una famiglia di giuristi, i miei genitori sono entrambi gli ultimi di schiere di fratelli. Famiglie numerose in cui hanno imparato a stare al mondo grazie a molto amore e a una gran buona dose di buon senso, che hanno trasmesso a me e a mio fratello. A tavola si è sempre ragionato di comportamenti e di relazioni, e così, poco a poco, ho fatto di una mia inclinazione naturale il mio mestiere.
Si, un’inclinazione naturale di certo, ma accompagnata da tantissimi studi e traguardi, prima in Svizzera, poi in Australia...Il primo passo è stato lasciare i miei (tra pianti, emozioni, e una fobia dei piccioni…) per andare a Roma, a 18 anni. Poi ho avuto la fortuna di avere un fidanzato già laureato, che viaggiava, e che mi ha dato occasione di continuare a muovermi. E’ così che sono stata a Losanna per un tirocinio sulla teoria dell’attaccamento, il mio primo amore professionale.
Ovvero? Ovvero il ruolo della prima memoria episodica sulla costruzione dell’identità. I primi scambi relazionali della vita fanno sì che ognuno costruisca un’immagine di sé degna o non degna di amore e cure e su questo modello costruiamo le successive relazioni importanti. Vede che spalanco gli occhi, ci piazza la battuta: in parole semplici? Le mie tesi ora fanno da peso in un gioco dei miei figli che altrimenti traballa. Sono sforzi ben spesi vedi.
Elisabetta ha un innato ottimismo, un’ironia pronta e improvvisata, una mimica facciale che ti fanno venire voglia di abbracciarla sempre. Dai, non minimizzare, le dico. Hai viaggiato, parli le lingue, hai uno studio tuo in centro a Milano, hai pubblicato libri (collana San Paolo – Collana Diventare Grandi ), hai cofondato l’Associazione Nutrimente ONLUS ( Nutrimente ) , hai insegnato a Bari, Chieti, Pavia, Milano…e sei ancora negli ENTA!
Ma no, è che sono stata – anche – molto fortunata, ho incontrato sul mio percorso persone illuminate, che mi hanno molto aiutata. Le mie colleghe svizzere in pausa pranzo mi parlavano di spalle, in modo da non farmi vedere il labiale, e farmi così superare la paura delle conversazioni al telefono, e in un mese ho imparato il francese. La mia prof del dottorato mi propose un’originale forma di collaborazione transoceanica…
Prof. australiana? Per quanto tempo avete programmato il trasferimento in Australia? Ride. No, una professoressa siciliana trapiantata barese! Programmato che? Durante una gita domenicale il mio fidanzato di allora riceve una telefonata di lavoro in cui gli dicono che si sarebbe dovuto trasferire in Australia. Io avevo ancora 3 mesi di tirocinio davanti. Decido di restare a Losanna, di finire il mio percorso, e poi faccio domanda alla Victoria University di Melbourne. Mi accettano. Pochissimo dopo esce un bando di concorso a Bari per un dottorato sui temi dell’attaccamento. Lo provo, per sfida, perché tanto i dottorati non si vincono a decine di migliaia di km di distanza. Lo vinco. E così faccio 2 mesi a Bari, 3 mesi a Melbourne, un po’ di qua, un po’ di là.
Complimenti! Una super secchiona insomma. Da sempre. Precisetta. Con la mania del controllo.
E poi? Poi io e Gustavo parliamo di matrimonio.
Il tuo fidanzato di allora? Rido, so bene la risposta. Eh si. Ne parliamo a Melbourne, e dopo la proposta “ufficiosa” io per mesi mi trucco e mi vesto carina anche solo per andare a far la spesa, nell’attesa della proposta ufficiale…ma niente. Per la proposta ufficiale con l’anello mi fa aspettare mesi e mi riporta in Svizzera, là dove abbiamo giocato a fare i grandi la prima volta, e dove ci siamo riconosciuti in quelli che saremmo voluti essere. Il matrimonio cambia le nostre prospettive, il fatto di voler essere una famiglia rende evidente per noi la necessità di tornare più vicini alle nostre radici. E così fu Milano.
Milano! Col senno di poi siete felici di essere tornati? Molto. Certo è che avremmo avuto una vita diversa fuori. Qui ci sono profondi problemi sociali, di atteggiamento delle persone, di rispetto reciproco. In Australia lavorano per vivere, qui viviamo per lavorare. Sembra una banalità, ma è verissimo. E io lo vedo in tanti dei miei pazienti, tradotto nella paura di perdere il lavoro, nella gran fatica che facciamo noi donne a tenere tutto sotto controllo, nel porci degli standard troppo alti perché la disparità dei sessi è una dura e concreta realtà. Lo vedo nei disturbi d’ansia dei pazienti giovani e meno giovani, donne e uomini, che vengono spremuti sul lavoro molto più del dovuto. Il disequilibrio tra vita professionale e vita privata c’è chi lo paga a caro prezzo. Qua trovo che manchi molto la prevenzione dei disturbi, la consapevolezza e il riconoscimento precoce di alcuni sintomi, che quindi diventano patologie se non riconosciuti.
Presso il servizio Baby Mamme lavoriamo sulla prevenzione del disagio psicologico e sociale delle mamme adolescenti, per esempio. Sono più di 10.000 le adolescenti che in Italia, ogni anno, si trovano ad affrontare una gravidanza. Noi gestiamo un percorso di sostegno e di aiuto affinché la relazione mamma-bambino possa essere il più possibile equilibrata e sicura. Cerchiamo di dare ai giovani genitori non solo uno spazio di consapevolezza nella loro crescita, ma anche degli strumenti per affrontare un momento così delicato con serenità.
Cosa fa sì che in situazioni di stress alcuni abbiano bisogno di psicoterapia e altri no? La “struttura” o il “funzionamento psichico degli individui” . Queste situazioni succedono a tutti, traumi più o meno importanti li affrontiamo tutti, quel che cambia è la struttura, la base sicura che alcuni di noi hanno fin dalla più tenera infanzia, che di certo è un fattore protettivo. Tuttavia a volte l’evento è così drammatico, inatteso o minaccioso che serve una riorganizzazione del proprio sé, un aiuto nel recupero delle risorse. Con l’EMDR cerco di desensibilizzare il paziente al trauma.
Ovvero? L’EMDR è l’Eye Movement Desensitization and Reprocessing, cioè la desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari. E’ un metodo di risoluzione dei disturbi post traumatici da stress, che permette al paziente una migliore comunicazione tra gli emisferi cerebrali insieme alla creazione di nuove associazioni neurologiche per integrare le esperienze negative con emozioni e con i pensieri positivi, migliorando i sintomi del disturbo.
Siamo interrotte ovviamente dall’orologio. Due mamme lavoratrici che a fine pomeriggio si ritagliano un po’ di tempo per chiacchierare, con un occhio sempre alle lancette, con un pensiero ai messaggi sul cellulare “che non si sa mai potrebbe essere urgente”, entrambe con il peso dell’organizzazione quotidiana non solo del proprio lavoro, ma anche della casa e dei figli. Ma è una scelta consapevole, mi dice Elisabetta. Me lo dice con gli occhi felici che le ho sempre visto, con quell’ottimismo innato che sembra la accompagni ogni volta che la incontro, che passiamo una serata insieme, che sento parlare di lei come di una straordinaria professionista.