Lorenzo, l’enduro, la magia, l’incidente

Lorenzo_motoE’ mattina presto. Sono circa le 7. E sono a Niguarda. Mio fratello si muove rapido nei corridoi, fa movimenti precisi, calibrati. Inserisce il badge, poi si dirige verso la macchinetta del caffè. Sceglie l’opzione caffè macchiato goloso, saluta con piccoli cenni il personale. Mi sento subito un elemento di disturbo, proprio come mi accadeva da bambina quando entravo al San Gerardo da mio papà. Mi è successo raramente, a dire il vero, ma quella sensazione è indelebile nella mia memoria. Chissà se tutti i medici si muovono così, rapidi, decisi, determinati. Negli uffici l’atmosfera è diversa. Ogni luogo di maestranze ha la sua densità di energia, nei luoghi d’arte per esempio è pregnante, massiccia. Negli ospedali è rada, diluita, sfuggente. Forse per quello ho sempre trovato stonato il personale che conversa al vivavoce nei corridoi, che parla della vita vera, quella fuori, come se non ci fossero muri, come se i pazienti non avessero orecchie, come se potessero alzarsi dai loro lettini e andare a farsi una corsa in un parco.

Sono qui perché Gio ha appena operato mio cugino Lorenzo, classe 1984, di ritorno dal deserto tunisino in moto con una tibia rotta. Gli è andata bene, mi dice, e quando mi spiega l’intervento in pochi minuti capisco cosa intende.

Lorenzo è un appassionato di moto da sempre, ma da qualche anno aveva in mente l’Africa. L’Africa è un punto di arrivo, per quelli come me a cui piace il fuoristrada. Mi sono allenato in Italia, con viaggi anche di giorni interi su strade sterrate, asfalto, pietraie, montagne: abbiamo paesaggi meravigliosi qui da noi.

Cosa vuol dire per te andare in moto? L’enduro vuol dire allontanarsi dal casino e sfidare se stessi, la propria resistenza, la fatica fisica, la capacità di mantenere il controllo.

Come è nata l’idea della Tunisia? Inizialmente con un gruppo di amici volevamo andare in Marocco, accompagnati dalle ragazze che ci avrebbero seguito in jeep. Poi ,come a volte succede, il progetto è naufragato, ma io ormai avevo il pallino di questo viaggio. E così mi sono unito a un gruppo organizzato di appassionati, il che mi avrebbe garantito le condizioni di sicurezza di base, il supporto in caso di bisogno, le tracce.

Le tracce? Sì, in moto non ci si avventura alla cieca. La mattina ci si sveglia e si caricano sul road book le tracce, ovvero le strade percorribili. Alcune le abbiamo fatte tutti, eravamo in dieci motociclisti, accompagnati da alcune jeep su cui seguivano membri delle famiglie dei miei compagni e gli organizzatori. Il paesaggio a sud di Tunisi è assimilabile a quello italiano, man mano che ci si spinge nell’entroterra però la difficoltà aumenta, si attraversano le montagne, e si arriva al deserto. 

E’ nel deserto che sei caduto? Sono caduto tante volte, la caduta è normale in moto.

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Davvero?? Si. Ma non è nel deserto che mi sono fatto male. Quella è stata di certo la tappa più impegnativa, nell’ultimo tratto mi sono ritrovato a pregare nel casco perché finisse presto. Ero davvero allo stremo delle mie possibilità. Un’esperienza spaziale, bellissima, ho vissuto emozioni fortissime ma anche davvero spaventose. C’è un punto di non ritorno nel deserto, in cui non puoi avere ripensamenti e il mantra è di non perdere di vista i compagni di viaggio: sono solo loro che possono tenerti in vita se succede qualcosa. Per il resto sei tu, in piedi sulla tua moto, a resistere contro la natura e allo stesso tempo a goderne. Devi trovare dentro di te la forza di stare calmo, di riprenderti, di risalire a ogni caduta, di ben misurare le dune, di pregare perché la batteria non sfarfalli e non ti abbandoni.

Portare a termine quei 30 km mi ha gasato, mi sentivo già a casa alla fine della giornata. Forse è quello che mi ha fregato. Ero a 48h dal traghetto quando sono caduto, mentre stavamo tornando verso Kherouan. Eravamo quasi sulla strada asfaltata, ho visto un banalissimo banco di sabbia, una cosa da dilettanti rispetto all’impresa che avevo appena compiuto. L’ho preso male e sono caduto, la gamba è rimasta sotto la moto, quando mi sono rialzato i miei compagni mi hanno steccato la gamba con dei rami, mi hanno caricato su una jeep, ho ingoiato 4 Tachidol e abbiamo affrontato 7 ore di strada. Siamo arrivati a una clinica la sera tardi, il medico tunisino è tornato in ospedale apposta per me, mi hanno fatto una lastra, mi hanno procurato delle stampelle, hanno cercato di convincermi ad operarmi, ma io nel frattempo chiamavo Gio e gli mandavo le lastre (mio fratello Giovanni, ortopedico a Niguarda e alla Casa di Cura San Camillo, ndr).

L’operazione è andata bene vero Gio? Chiedo a mio fratello che è accanto.

Intervento si dice, non operazione, scrivi intervento! Ignorante, e sei figlia di medici! E’ sempre bello avere un fratello maggiore che ti cazzia per come ti vesti, per come parli, per come ti atteggi. E’ una certezza di cui non potrei più fare a meno.

Dicevo, l’intervento è andato bene si – continua Giovanni – Lorenzo ha avuto una frattura di tibia e perone, per fortuna non esposta, come invece avevo capito dalle prime telefonate. Il rischio settico nelle fratture esposte è elevatissimo, perciò gli avevo detto di non farsi toccare e di tornare a Milano al più presto.  Attraverso un’incisione sopra il ginocchio, con circa 5cm di taglio, la tibia è stata ‘armata’ con un infibulo endomidollare di titanio. 

Eeeeehh? Va beh troppo tecnico! Insomma una roba facile o difficile?

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La difficoltà di questo intervento era che la frattura arrivava molto bassa fino all’articolazione della caviglia e quindi, inserendo il chiodo, c’era il rischio che si aprisse completamente la tibia, con la conseguenza di dover cambiare intervento e prognosi. Ma l’équipe è stata molto precisa, non si è aperto nulla, le incisioni sono state minime, conclude Gio.

Che avventura Lori, sono contenta di averti qui tra noi, tra poco di nuovo in pista! Dimmi un po’, quale sarà la prossima tappa?

Beh, la prossima è una tappa di vita personale, che scoprirai a tempo debito…

Emozionata, sento che mi ha raccontato tutto quello che volevo sentirmi dire, e che l’intervista può finire qui. E’ proprio vero che la vita ci mette davanti a delle sfide per affrontare i nostri limiti, le nostre paure, per trasformare quelle che fino ad allora avevamo visto solo come possibili alternative nelle uniche vie possibili, in quel preciso momento della nostra esistenza. Le condizioni saranno sempre incerte e imperfette, proprio come quando si va in moto, ma crescere significa rialzarsi e iniziare un nuovo percorso, determinati nel farne la più bella esperienza possibile.

 

 

 

 

 

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