
Ci ho messo un po’ a scrivere la recensione di questo libro, perché in parte è una storia che appartiene anche a me.
Marta per me è sempre solo stata quella ragazzina, di qualche anno più grande, con cui andavamo in vacanza in barca. Alle mie domande sul perché non avesse il papà ricevevo sempre risposte evasive, poi un anno che ricordo benissimo mi dissero la verità, ma una verità monca e senza particolari, muta e immersa nel dolore delle tragedie senza significato.
Mario Calabresi ripercorre le tappe della vita di Carlo Saronio, rapito e ucciso nell’aprile del 1975 dal Fronte Armato Rivoluzionario Operaio. Quella di Carlo è una storia che è sempre stata privata, ha sempre fatto parte del vissuto non solo di chi quegli anni li ha vissuti, ma anche di chi ne ha sentito parlare, ne ha sofferto, ci si è trovato in mezzo. Dice Calabresi: “Ora, per capire, bisognerebbe immergersi in un’acqua scura dove riuscire a dare un nome preciso alle cose è un’impresa impossibile. Ricostruire nei dettagli quel che è successo negli anni Settanta è un’illusione. Quanta gente che è ancora viva potrebbe parlare, quanta gente sa, ha visto, sentito, vissuto. Oggi hanno i capelli bianchi, figli di 40 o 50 anni, e nipoti […] Dentro di loro c’è ancora, forse lontano o magari vicinissimo e presente, quel ragazzo che sognava la rivoluzione, quello che aveva preso il gusto della violenza, quello che ha fatto cose di cui non ha voluto mai vergognarsi oppure che ha rimosso per non farci i conti“…
Oggi, a 45 anni dalla morte di Carlo, la sua storia diventa pubblica, anche se ancora molti sono i tasselli mancanti. Questa indagine colma un vuoto che anche io, come chissà quante altre persone vicine ai protagonisti di questa vicenda, mi sono portata dietro per tanti anni. Mi sono rivista bambina in quel preciso momento vacanziero in cui la mia mamma con poche e semplici parole mi spiegava cosa fosse successo, prima che tornassi a giocare con Elisabetta, sorella di Marta.
Niente riporterà indietro la storia, ma conoscere più particolari di quegli incomprensibili e sanguinosi anni ‘70 e vedere il nome di Silvia, di Luigi, di Roberto, di Corso Venezia 30 e di Bogliasco mi ha emozionata molto. Proprio come nel libro, anche i miei ricordi nascono da quei bagni in mare, da quelle acque cristalline e dall’aria di vacanza che nulla potevano contro la spessa coltre del non detto.
Non posso dire che questo libro mi abbia alleggerito, anzi, ma vedere un po’ di luce nelle tenebre di questa vicenda così dolorosa, oscura, priva di appigli, è come se avesse guarito una ferita aperta, umida, salata, che ogni tanto riemergeva tra i miei pensieri, e per questo sono grata.