In giapponese le possibili risposte alle domande chiuse sono 3: si, no e nu. Nu, ovvero: la domanda è mal posta, e non è possibile rispondere nel modo corretto.
Un buon coach deve saper porre le giuste domande. Non è solo una questione di buon senso e comprensione, ma anche di vera e propria tecnica. Se vogliamo che le domande siano causa di una riflessione, di un eventuale cambio di prospettiva, e di conseguenza di un cambiamento comportamentale bisogna che siano volte alla creazione della consapevolezza. Il coach conosce bene la tecnica, e il coachee conosce bene la sua situazione. Dalla sinergia di queste due figure, dalla tecnica applicata alla situazione particolare nasce il ‘percorso’ di coaching.
Come portare il coachee ad essere più consapevole della situazione che sta vivendo, delle sue emozioni, dei pensieri e delle convinzioni che potrebbero limitarlo?
Innanzitutto, un buon coach non pone mai domande chiuse, ovvero a cui si può rispondere si o no (o nu, se è giapponese 😊). Un buon coach ascolta, e solo dopo aver ascoltato sa qual è la domanda più utile da fare.
Costruire una relazione di fiducia tra coach e coachee può essere una vera e propria sfida, poiché si toccano pensieri profondi, emozioni, diffidenze, credenze radicate. E’ per questo che il coach usa un percorso a tappe e non improvvisa mai la sua conversazione. L’utilizzo di uno schema a fasi permette di portare avanti la sessione nel clima più neutro e professionale possibile.